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Qualsiasi luogo può essere teatro. Addio a Peter Brook

Aggiornamento: 15 set 2022

Il regista britannico se n’è andato il 2 luglio scorso. Aveva 97 anni




Peter Brook

di Rita Felerico


Difficile dimenticare lo sguardo e il colore degli occhi di Peter Brook. Penetranti, bucavano l’anima, il cuore degli attori e lo spazio dei palcoscenici. La notizia della sua scomparsa, all’età di 97 anni, ci arriva il 2 luglio di questa estate particolarmente afosa.

In uno dei suoi testi più famosi, Lo spazio vuoto del 1968, vi è il nous della sua idea di teatro, luogo rappresentativo che si trasforma in luogo evocativo e magico, in spazio vuoto nel quale gli attori con i loro gesti, con le loro voci, i loro movimenti fanno “teatro”, intrecciando con il pubblico un dialogo irripetibile. Brook spronava gli attori a tirar fuori tutta la forza della loro espressione artistica lasciando libera la loro fantasia, la loro corporeità. Molto infatti ha dedicato allo studio del corpo, della voce, del ritmo interiore. Se si può giungere a questo, affermava convinto, vuol dire che esiste e si può materializzare quello che si chiama spirito, la cui realtà si può giustificare proprio e solo attraverso il teatro.

Il teatro tanto deve al lavoro di Peter Brook, alle sue riflessioni, alle sue intuizioni, era un vero Maestro, anche se questo appellativo non lo ha mai amato molto. Direttore artistico dello storico teatro Bouffes du Nord a Parigi, ha sperimentato lì la sua idea di “spazio vuoto”. Parigi è la città dove scelse di abitare dopo aver lasciato l’Inghilterra (ovvero Londra, città natale, dove emigrarono i suoi genitori dalla Lettonia) ma ha sempre custodito e coltivato dentro di sé due grandi amori, Shakespeare e la cultura russa.

Ha scavato, indagato fin dentro le pagine e le metafore del teatro scespiriano, di Cechov, di Dostoevskij, nelle cui opere legge e interpreta le diversità dell’umano, gli accadimenti della storia, l’impenetrabilità dei destini, la forza e l’ignavia, l’improvviso delle fortune. Uomini e donne a cui il teatro secondo Brook deve e vuole dare forza e significato.

Più volte a Napoli, luogo che a suo modo amava, più volte presente nelle edizioni del Napoli Teatro Festival, indimenticabile resta il suo incontro con il pubblico al Teatro di San Carlo, se non sbaglio nel 2017, dove parlò del senso della complessità e del mistero dell’opera del Bardo, delle sue dimensioni più autentiche e ‘necessarie’ considerando stupida e inutile la domanda sulla sua identità, che profanerebbe il mistero che avvolge non solo le sue origini ma la segretezza stessa della sua opera.

E lo ricorderemo, fra l’altro, per un capolavoro come Il signore delle mosche, il film che narra dell’avventura di un gruppo di ragazzi scampato alla guerra nucleare o per il famosissimo spettacolo per Avignone del 1985, Mahabarata, racconto dell’epopea indù di circa 9 ore divenuto poi film che, insieme ai testi di Shakespeare, tocca tutti i livelli della vita, quotidiani, metafisici, cosmici, animaleschi.

Ci mancherà il suo sguardo magnetico, il suo teatro basato sull’esperienza dell’incontro, dello scambio di suoni, gesti, parole, quel teatro che non si limita ad essere solo un prodotto estetico, ma frutto di una sapienza che si tramanda nel suo continuo farsi e disfarsi, travalicando i confini della realtà, per trasfigurare il mondo – come fa la fantasia dei bambini – e credere possibili le verità del possibile.


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