Al Piccolo del Bellini torna un gioiello di Annibale Ruccello. Con l'ottimo Rino De Martino
Di Marco Catizone
Onfalòs tufaceo, sacello di sacra rappresentazione, le piece di Ruccello, l'ormai classico Annibale, sono apotropaico feticcio per plateau ancestrale, ormai mutato di riflesso in odierno falansterio da barnum mercificato d'infima visione (rectius, tele-visione); eppure regge il rostro, il Nostro, a fendere il nesso eziologico della traditio che fu, con vesti effimere, le mutate pelli delle Madri ruccellesche ad erompere, esondare, guisa d'ectoplasmi sulfurei a riemergere dal passato neapolitano, quando la semantica, la semiotica e la “Kultur der Zeit” convergevano in parte sodali verso la lengua del Basile e dei suoi Cunti, e l'opera neo-vulgare (nel senso di conto popolare e ctonio) del Maestro De Simone, con le note della Nuova Compagnia di Canto Popolare a scontornarne il senso, conformavano il nostro comune sentire di guitti metropolitani intrisi di cotonature muscolari e consumistico vezzo.
Era il tempo en travestì di Jennifer e delle sue paillettes rosate (ben Cinque), plebea pudicizia e posticci a raggiera; di Ferdinando e delle impudicizie ad inganno, quel candore androgino, smerigliato e puntuto. Emerge, canto dolente, al Piccolo del Bellini, grazie all'ottimo Rino De Martino, un Ruccello immacolato, puro di cunto ed essenza, nell’amnios fetale d’un ventre orfano, mai sazio per nostro diletto e appagamento, della presenza assente del giovane drammaturgo stabiese, eclissatosi nel pieno fulgore scenico d'una morte immatura, incompleta: le sue Madri son ancelle tormentate, Lari post-moderni, archetipi ridotti a brani, lacerati nel segno d'un canto (cunto, ca va sans dire)
polifonico, mai provinciale, resti di gusci materni in disfacimento, per architravi familiari e
masserizie muliebri, alle quali impiccare l'uterino disvelamento, d'esser matrice e mantici, ad insufflar mortifero senso.
Ed è svacantato, svuotato, è senso ottuso, ovattato, maschere figlie d'una maieutica minimalista, d’exempla in soffio di labbra, lemuri e maschere, nel segno del classico; De Martino si cala perfetto nelle carni ruccellesche, ammantato e svestito, d'anima e strass, permeando il terriccio del palco, adattandone l’humus, e scavandone in costanza, e coscienza, fiumi di carsica poetica e rarotalento. Animalità da palco. Da preservare, incendiare di linfe novelle, mostrare ai posteri, ai postumi, quale esotico e dramatico vezzo, senza belletto, parrucco e posticci, senza finzioni sovrastrutturali: unico, in scena, l'Attore, che quel Ruccello Annibale, calato dal basso, anima mundi d’un partenopeismo da rinnovare, poneva al centro della sua drammaturgia, sovente grotesque, vivida ed incendiaria.
Ironia sospesa sulle miserie dei basoli, nella solenne solitudine di camere soffocanti, per mutazioni simbiotiche d’identità irredente, tra femminielli/travestisti, Candidi luciferini e ferdinandei, madri e puttane, vergini di solitudo, non di verga, che mai fu beata, anzi; De Martino-Ruccello sazia la platea della sua verità, tracannando in alto il calice di abulici e laceri miti, che son forme corrotte e carnascialesche, irresistibili, delle fiabe antiche, del Perrucci (e la sua Cantata) trasfigurati da cantori plebei, in nobili preci litaniche, verba di popolo, per una Parola finalmente disvelata. Ruccello sradicava i suoi personaggi, la fenomenologia della sua personale recherche si fondeva con la poetica delle sue rappresentazioni, per sconfessare le lepidezze postribolari d’una terra arcana ed incantata. Incantata, perché ritualizzata ad uruboro, ad libitum, di più, ad libidinem, perchè sfruttata come corpo e merce, per luccichii ingolfati e salmastri, travestitismo
irrituale, ormai sfatto.
Eppure sul proscenio la lengua del Basile, cinerinasulfurea, raccatta i lacerti, e s’ addobba delle “moderne” radici ruccellesche, perpetuando il rito, impervio, d’una teatralità verace, mai vulgare, che s’adombra e rischiara ad uroboro, all’umido delle assi .
Merito anche del taglio netto, asciutto, della regia della Morea e delle scenografie di Piscitelli; chapeau per Di Martino, davvero a suo agio nei panni del cantore ruccellesco; tempus fugit, eppure al Piccolo rimane invero sospeso, nell'eterno gioco del teatro, mai vacuo, mai stracquo, sempre in bilico tra vita e capolavoro.
Applausi, al Piccolo Bellini di Napoli con la regia di Antonella Morea. In scena dal 29 marzo al 3 aprile.
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