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“La Cupa”, torna il capolavoro di Borrelli

Al Bellini di Napoli dall’11 al 23 ottobre con Mimmo Borrelli, Maurizio Azzurro, Dario

Barbato, Veronica D’Elia, Rossella de Martino, Renato de Simone, et alia. Musiche di Antonio della Ragione


“La Cupa”, torna il capolavoro di Borrelli

Di Marco Catizone


Mater o matrigna, la fessura, lordura, che insozza gli innocenti, perdendoli alla vita, come alma indecente e derelitta, vomitata dalla Cupa, senga tufacea, fessa e cava, di spurgo e malia, forse malatia: qui è il sacello, il sacer immondo, dell’uomo tribale che diviene, dall’unicum, contezza e persistenza, malarazza e discendenza.

Borrelli riporta l’humus e l’essenza lavica di terre disperse ed implose, col bradisismo flegreo che intossica l’anima; li condensa nel seme spermatico di figli comme piezze ’e sfaccimma, putti ormai corrotti, sgravati da diavoli zolfegni che occupano a sputi, sangue e malaciorta terre umbratili, fetide eppur feconde: in platea s’erge la ferita, pregna , come fregna, d’un palco in proiezione, lignea fava di Pater spurio, che sventra Terra come Madre, cavea e pietra, possente e posseduta, pieve che diviene seme e genesi, e rinascita, cordone placentare che impicca a sgravio la propria discendenza.

E chi shakespeariani, in una farsa tragica primigena, progenie di cunto basiliano, dilavata nell’etnografia in versi, parimenti a De Simone; una contaminazione perenne, biblica culata di destini perversi e cannibali, che rivomitano lacerti di vita e di morte, riducendo l’umano a brandelli: Borrelli e le sue schiere permeano l’ alveus invaginato, scorrazzando per longitudine, emergendo dalla Cupa, come lemuri dall’Orco, occhi indemoniati, gutturali strazi per antiche novene di angeli decaduti, tra Bacoli, Baia e Torregaveta, a far reflusso d’acheronte.

E son lande sez’aucielli, borborigmi a far conto inebriante e pestilenziale, malapianta per malaciorta: d’esser nati affondando le mani nell’humus antico di declinazioni semiotiche, come segno ancestrale, verbo illanguidito ed umorale, che assorbe il vezzo, il puzzo, di terre ormai stracque, stantie, cave frastagliate da cui tracima la vita, assieme alla devianza, seme che diviene senso distorto, morte in forma umana, fabula mostruosa per animali captivi, carcerieri e vittime al contempo, al consesso.

Un sabba notturno, con languori e protervia e violenza, effimero canto, senza nostoi da ricordare, caduti come l’angelo luciferino, intossicati dal bubbone di vendette ancestrali, agnizioni che disvelano null’altro che l’impotenza di vittime predestinate, votate alla testimonianza cieca, incapaci di invertire il flusso, di farsi monito e non solo capri, espiando la colpa, rivivendo il ricordo.

Una pièce muscolare, un conto infinito, che rinasce e si rigenera dalla mota a fanghiglia, dal tufo nero-pece liquefatto, per una sincope a silloge di tutto lo scibile inumano, che le genti ferine d’un Sud ambiguo e sibillino, son capaci di essiccare, come seme sputato e lasciato a ingravidare le nera terra, innanzi al mare. La Cupa imperversa, è altro-mondo, è onfalos corrotto, magma condensato in polo magnetico, che distrugge ed avvince, che lega le carni dei suoi figli, siano uomini o animali, nella malia d’una notte a Sant’Antuono, in una ressa di morte e tradimento, tra violenze in-puer , su bambini annichiliti dall’orrore vizioso di adulti bestiali, suicidi di madri rotte come bambole spugnate, anime pezzenti scannate come burattini incancreniti, i fili tagliati come vene scoperte.

E sangue, sangue a colare dalla fessa a ferita, sangue a intingersi nel collo e nelle spalle, sangue a sbottare dal tumore a fermentare: nessuna redenzione, nessuna speranza, per Borrelli-Giosafatte e la sua Valle incancrenita: solo il rintocco d’un funerale infinito, come uruboro a caduceo, d’un Angelo che spurga livore e liquor nero.

Il Nostro è degno anfitrione, ci conduce per mano sulla zattera infernale, la sua opera è

endecasillabo disciolto per litanie teatrali, riti liturgici per ascensione a metà; inebriante

tocco, retrattile come onda, per un vapore ormai marcito: è fiele e scimunisce, evaporando

in mummarelle svacantate, dove la pietas non è ricetto, tutt'al più sconforto, trascina le anime nella Sciaveca (altra opera fondamentale) del peccato a rimorso.

Il suo è carotaggio interiore, nella placenta molle d’un peccato-rovello,fertile e blasfemo, perché vivo e reale; come ferita a raggrumare, a scorrere silente.

Bradisismo d'anime all’abbisogna, come Malacrescita,come bestemmia di cunti, per fratelli distorti, padri violenti, madri euripidee, figli gemelli, parto destruens e sperma avvinazzato, corrotto dagli eventi, ad imporporare la terra; sangue e vino, chè di latteo e virginale, resta la macula sul grembo, e nulla più. Mimmo Borrelli, ispida la barba che incupisce il volto, nazareno criptico e dionisiaco, è corpo cavernoso che trasmuta in eco polimorfo, strascicata risacca e lugubre, come funereo ristoro. Ma di pace non v'è traccia alcuna.

Febbrile, catartico ballo, che spossa e stracqua, denuda e trasforma, mai rassicura. “La cupa” trasfigura gli attori, permea il teatro, gioco di assi sedimentato nella tradizione che scorre in ipogeo, come in ecclesia in Purgatorio: una carne straziata, aperta, viva; senza requie o cura o redenzione: tessuto morente, bagnato da lacrima asciutte, d'una Matrigna Terra che non nutre, non riscalda, né consola.

Plauso convinto, l'arte della mimesis ha trovato un degno cantore, come un Orfeo apocalittico; attori semplicemente perfetti, musiche che seguono e condensano, impennano ed inabissano, semantica oscura eppure cristallina.

In sintesi, un capolavoro assoluto.


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