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“Hamletmachine” di Heiner Muller, con Rino de Martino. Regia di Sergio Sivori, dal 9 al 21 novembre


di Marco Catizone

Napoli - “Essere o non essere... sovietici, nel '56 in Ungheria”? Atavico dramma, rovello a parafrasi, per soliloquio a genesi, per testo a canovaccio, frammentato a schegge: essere Amleto, rivivere tragedia indi votata in farsa, per figlio di comunista afforcato da Stalin e sodali, lemure reietto riabilitato all'abbisogna, per nuovo funerale, per grottesca nemesi, per nuova linfa a dittatura.

Principe figlio, fantasma di se stesso, sparuto e frusto, l'Amleto di Muller, per Shakespeare cubista, come fosse Guernica, a segmenti e lacerti picassiani, a sprazzi, e soliloquio, e follia: ed è Budapest '56, ed è Elsinore, da teatro elisabettiano a Realpolitik, a compatirne il file rouge, a lamentarne il destino; lustri secolari, le gentes son catene, ombre derelitte che avvolgono spalti immaginari, la folla, la fola, a spargersi d'intorno. E sul palco, sulla scena, luci riflesse in un catino amniotico, un onfalos a scrigno, un vano gioco d'ombre a carillon in loop; e su tutto ad ergersi, Hamletmachine diretto da Sergio Sivori.

Certa è la vulgata, del marcio v'è sicuro, tradimento di senso, in nomine di cinismo e terrore, staliniano vezzo di calpestar serventi, quando il laccio si fa corto, e lo strummolo non gira più; laccio che diviene capestro per impiccar passato, stravolgendo Storia e morte di Stato, riavvolgendo il nastro, e senza teschio da rigirarsi tra i palmi: defunse il padre, Lazlo Rajik, ministro dell'interno di primo pelo stalinista, vittima di purga rossa, come fosse lupara bianca; defunse la sua ratio, per mano di Madre Russia, ad inseguir il Padre, quel Baffone demonio e castigo degli umani; fuggì il senno, del figlio-Amleto, alla recherche d'un nesso possibile, d'un lembo a lacerto, di un senno concreto, che non sia solo malia, tradimento, inganno.

Hamlet ha il volto segnato a biacca, insanguinato e notturno di un Rino de Martino in buona forma, misurato e cerusico, nel disegnare il contorno fascinoso d'un reietto, un rigurgito della Storia, un fantasma incarnato assediato dalle Furie ad arpia, d'un Passato che riavvolge se stesso, sotto i colpi a bombarda di cingoli in movimento, che trascinano corpi, strappandone brani, cerberi insanguinati che bramano e consumano, annichilendo gli echi di vittime e carnefici, nel gran valzer di ciò che è stato, di ciò che tracima da realtà, e dilava nell'incubo.

“Tinto di rosso, il mattino attraversa la rugiada, che al suo passaggio pare sangue”: i versi di Heiner Muller riflettono il dramma, dell’umana ridondanza è la nuda verità, che basta la menzogna spacciata per vero, una singola stilla per vendersi e comprare, a scardinare un regno intero, e questo è quanto; Hamlet - De Martino ne è conscio infine, strappa il velo che ottunde il suo speculum interiore, mutandosi in altro, smottando in Ophelia, per cinica resa, per verità dissepolta, che svela l'arcano: “Strappo le porte perché possa entrare il vento e il grido del mondo. Mando in frantumi la finestra. Con le mani insanguinate strappo le fotografie degli uomini che ho amato e che mi hanno usato”.

Perché Verità non teme l'agnizione, come teme il disinganno: le fake news creano simulacri e volti d'eroi, dove prima c'erano assassini; e viceversa, basta un giro alle lancette, ed il Tempo torna indietro, cambiando senso e servendo il Potere, ché l'unico volto che vede è la Violenza, infine disvelata, cruda come morte, privata dell' arcano.

Perfetto specchio dei tempi, Hamlet rifiuta la benda, divenendo Elettra ad illuminare il mondo: perché se d'idolatria si fa menzogna e bieco terrore, allora meglio l'oscurità: “Alle metropoli del mondo. Nel nome del sacrificio. Io butto via tutti i semi che ho ricevuto. Trasmuto il latte dei miei seni in veleno mortale. Mi riprendo indietro il mondo che ho partorito”.

Spettacolo da rivedersi ad libitum, plauso all'Attore, spettro amletico e spirto inquieto, maschera del disinganno, che mai si plasmò a menzogna.

Buio, sipario, applausi.


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