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Dal teatro al cinema, storie di denunce e di riscatti

Io so e ho le prove e La Conversione, una pièce teatrale e un film per raccontare le storture di un sistema imploso e degenerato.



di Antonio Tedesco

E’ un teatro “presente” quello di Giovanni Meola. Presente non solo all’attualità e alla cronaca, ché in tal caso si dovrebbe parlare di teatro “giornalistico” (genere non ancora codificato ma che va diffondendosi già da qualche anno), ma presente al mondo, alle sue innumerevoli sfaccettature che, travolti e confusi dal caos dei giorni, rischiamo a volte di trascurare o sottovalutare, se non addirittura di non vedere. Questa “presenza” si manifesta nella trasfigurazione. Cioè nella trasformazione del fatto in sé in azione teatrale (qui sostanzialmente la differenza con il teatro giornalistico di cui sopra) che lo solleva dal puro dato di cronaca elevandolo a paradigma del mondo. Così è stato per molti degli spettacoli precedenti di Giovanni Meola e così è per questo Io so e ho le Prove, un lavoro teatrale, come suol dirsi, “necessario”, che fa vibrare un nervo scoperto tra i più sensibili di questi ultimi anni, quello che attraverso un sistema bancario e finanziario precipitato in un vortice di scelleratezza in cui ogni regola etica e ogni correttezza morale è completamente saltata, ha condizionato e corrotto l’economia di gran parte dei paesi occidentali. Uno spettacolo che, in forza di tale necessità, gira da molti anni accumulando decine di repliche (ultima in ordine di tempo quella del 4 settembre al Maschio Angioino nell’ambito della Rassegna Teatrale organizzata dal Comune di Napoli) senza mai perdere la sua forza e il suo pressante interesse. All’origine c’è il libro-denuncia di Vincenzo Imperatore dal quale è mutuato il titolo. Meola sottopone il testo ad una acuta sintesi scenica e le parole di denuncia dell’ex manager bancario, che ha deciso di tirarsi fuori facendosi accusatore di quel sistema, si trasformano in gesti, suoni, luci. La recitazione assume toni a volte enfatici, a volte grotteschi e, a secondo dei casi, sommessi, sussurrati, declamati o urlati. Dando così a quelle parole, già pesantissime per sé, ulteriori coloriture e ulteriore senso. Trasformando lo scandalo in un atto di comprensione. Perché non basta indignarsi, ma bisogna capire veramente perché ci stiamo indignando. Nell’allestimento teatrale Meola, che oltre a curare la regia e la riduzione del testo ne è anche interprete, utilizza una controparte, una specie di specchio deformante, o amplificante, fatto di ritmi, suoni, rumori, vocalizzi, affidati alla sua brava compagna di scena Daniela Esposito, attraverso i quali coglie quell’enfasi grottesca, quasi parossistica, che il puro dato di cronaca in sé per quanto sconvolgente e inquietante non riesce a trasmetterci. Quello stesso dato di cronaca che assume, invece, nuova rilevanza, e nuovi significati, in una diversa forma espressiva che, per certi versi, possiamo dire scaturisce dalla stessa fonte, e cioè La conversione, il film che lo stesso Giovanni Meola ha realizzato nel 2020, dove l’ex bancario d’assalto, Vincenzo Imperatore, chiamato stavolta direttamente in causa, è messo in una sorta di cortocircuito con Peppe De Vincentis, ex rapinatore ed ex galeotto, attualmente drammaturgo e attore. I due si confrontano e si raccontano nel corso di una cena aprendo le proprie vite l’uno all’altro in un rappresentativo e coinvolgente esempio di quello che oggi viene definito “cinema del reale”. Abbandonata ogni metafora e ogni manipolazione teatrale Meola lascia direttamente la parola ai due protagonisti. Ma anche in questo caso non si tratta di pura cronaca perché il confronto tra i due uomini apre ulteriori margini di senso. Ci rivela due facce della stessa medaglia, due aspetti di un sistema malato dove da una parte si usano le armi della persuasione, dell’inganno, del ricatto e dall’altra quelle più “materiali” e dirette del furto, delle rapine, del contrabbando, portando alla luce due ramificazioni della brama predatoria (quasi un effetto collaterale delle società capitalistiche), quella che agisce sotto copertura di una seppur effimera legalità e quella che scopertamente e a proprio rischio si espone. Senza intenti giustificatori o assolutivi per nessuno, Meola conduce la sua indagine trasversale in un composito e contraddittorio spaccato sociale raccontando due storie di riscatto che partendo da posizioni, forse solo in apparenza divergenti, convergono, grazie anche alla scoperta dell’arte e della scrittura, in un medesimo punto d’incontro.

Due forme, due linguaggi, quello del teatro e quello del cinema, per essere “presenti” ad una realtà, per aprirsi ad un confronto con essa, senza impraticabili intenti risolutivi, ma per cercare di allargare un po’ di più gli spazi possibili della comprensione.


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