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Ctf - "Il Soccombente" di Thomas Bernhard – regia di Federico Tiezzi

Cortile della Reggia di Capodimonte – 25 e 26 giugno



Ctf - "Il Soccombente" di Thomas Bernhard – regia di Federico Tiezzi

di Antonio Tedesco


Napoli – Il genio è una forma di maledizione? Un inferno che brucia l’animo di chi lo possiede? E che resta dell’uomo (dell’umano) nell’artista completamente in balia del suo genio e della sua arte? E ancora, chi è in grado di comprendere a fondo un genio se non un altro genio che solo non ha potuto, o forse voluto, spingere fino alle estreme conseguenze le sue potenzialità? La vicenda di Mozart e Salieri è proverbiale. La genialità compositiva, sfrenata, quasi selvaggia del primo, e quella più composta, controllata, e forse proprio per questo sofferta e “soccombente” del secondo. Ed è proprio nel sottotesto di Il soccombente, romanzo pubblicato nel 1983, che Thomas Bernhard pone con il suo stile iconoclasta e irriverente, che si potrebbe definire quietamente devastante, questi cruciali interrogativi. Che mettono in discussione le radici stesse dell’arte, ma soprattutto dell’essere artisti. Del rapporto dell’individuo con quella sfera insondabile dell’estro creativo che definiamo Arte. Cosa resta di umano in un artista? E qual’è il limite dell’abbandono che l’arte richiede al suo “facitore”? Quesiti meno accademici e astratti di quanto possa apparire a prima vista. Che riguardano aspetti decisivi della condizione umana e il suo rapporto con “l’oltre”. E che, nella efficace e ponderata riduzione scenica di Ruggero Cappuccio, sono stati trasposti in teatro per la regia di Federico Tiezzi e l’interpretazione di Sandro Lombardi, con Martino D’Amico e Francesca Gabucci, nell’allestimento che la Compagnia Lombardi-Tiezzi ha presentato in prima assoluta il 25 e 26 giugno al Cortile della Reggia di Capodimonte per il Campania Teatro Festival.

Un narratore senza nome (Lombardi) racconta della sua esperienza giovanile, un’estate in cui, insieme a due coetanei e colleghi di conservatorio, seguì un corso di pianoforte con il maestro Horowitz. Uno dei due era Wertheimer, di cui si racconta la vicenda, l’altro Glenn Gould. Il genio inarrivabile del secondo ha soffocato sul nascere il talento del primo che, inibito nel suo sbocciare, non ha fatto in tempo a diventare genio. Il sofferto percorso di Wertheimer non nasconde, però, l’altrettanto problematico itinerario esistenziale di Gould. La sua totalizzante dedizione all’arte del pianoforte. Tiezzi sottolinea con pochi ma incisivi segni scenici tale condizione. La centralità del maestoso pianoforte a coda posto su una pedana nel mezzo della scena e racchiuso in una sorta di piramide luminosa. La gestualità stilizzata degli attori, quasi una misurata coreografia di gesti fisici, ma soprattutto interiori, allusi o solo accennati, che rimandano a forme e gradi di coinvolgimento con lo strumento, sorta di totem sublime e minaccioso a un tempo, alla sua inafferrabile spiritualità, ma anche alla sua concreta, quasi sensuale, materialità. Uno strumento che troneggia fra loro, ne condiziona e determina le esistenze. Fino a risucchiarle in un vortice autodistruttivo, il suicidio di Wertheimer e la morte per sfinimento di Gould. Il tutto accompagnato dal preciso incedere della voce del narratore, il come sempre impeccabile Sandro Lombardi, che avvolge con le parole di Bernhard la vicenda, pur senza sciogliere un mistero per sua natura irrisolvibile. Non a caso il finale è affidato al “silenzio” in tre movimenti di 4’33’’ di John Cage, a coronare una messa in scena elegante e raffinata che non nasconde la sua forte matrice letteraria, ma ne fa anzi veicolo per amplificarne il senso. E nel fare ciò chiede al pubblico un supplemento di attenzione, una partecipazione che coinvolge la testa e il cuore in un’unica volontà di “comprendere”. E comprendere oltre le aspettative più banali e più ovvie.


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