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"Confini" al ctf, uno spettacolo necessario

Aggiornamento: 1 dic 2021

La denuncia politica, sottesa e mai dichiarata, in questa messinscena ha un impatto emotivo che destabilizza il pubblico chiamato a rispondere con la propria coscienza dell’indifferenza che si traduce in complicità su quanto accade intorno a noi



Di Maddalena Porcelli

Napoli – Confini, lo spettacolo che ha debuttato il 3 luglio 2021, nell’ambito del Campania Teatro Festival, con la regia di Davide Sacco, curatore anche del disegno musicale e dei video, è il risultato di un’intensa, lunga e complessa gestazione, fatta di incontri, ricerca e collaborazioni fruttuose tra il regista, la drammaturga Agata Tomšič e l’autore italo-lussemburghese Ian De Toffoli, al quale è stata affidata la scrittura del testo. Il progetto, avviato fin dal 2018, ha subito, lo scorso anno, una pesante battuta d’arresto determinata dall’epidemia di Covid-19. Questa, tuttavia, tra le mille difficoltà del caso, è stata assunta come occasione di riflessione e immessa, con grande abilità creativa, nello stesso processo drammaturgico. Un lavoro imponente, con alle spalle ben tre produzioni: la Fondazione Luzzati - Il Teatro della Tosse, il Théâtre National du Luxembourg, Ravenna Festival, ErosAntEros, con il sostegno del Campania Teatro Festival.

Si attraversano secoli di storia, sviluppati lungo un doppio binario che segue due strade parallele: l’una, che corre lungo le rotte delle migrazioni avvenute all’indomani del secondo conflitto mondiale, delle migliaia di uomini, in gran parte italiani, sospinti dal sogno di un futuro che potesse riscattarli dalla miseria delle condizioni economico-sociali e diretti nelle miniere del nord Europa, in particolare quelle del Belgio e del Lussemburgo; l’altra, che segue le tappe che hanno segnato il processo di ideazione e realizzazione di quella che è oggi la UE.

In scena un cast attoriale internazionale eccellente: Hervé Goffings, Sanders Lorena, Marco Lorenzini, Djibril Mbaye, Agata Tomšič e Emanuela Villagrossi. Molta cura è affidata al suono di Massimo Calcagno, alle luci di Andrea Torazza e ai costumi di Laura Dondoli. Due donne del futuro, ferme dinnanzi a due lastre monolitiche di metallo, situate da un lato e l’altro del proscenio, in funzione di coro, conducono in un viaggio nella storia e hanno il compito di illustrare agli spettatori le contraddizioni tra ciò che è stato scritto nelle stanze del potere istituzionale e ciò che la realtà ha prodotto. E lo faranno attraverso una lettura attenta e scrupolosa di quegli articoli della Carta dei diritti dell’Unione che, una volta disattesi, hanno prodotto il fallimento e la distruzione di ogni ragione di sopravvivenza del pianeta. Sul fondo del proscenio si staglia una sfera buia, simile a un varco, a un buco nero, alla bocca d’ingresso di una miniera, a una frontiera invalicabile: s’illuminerà di tanto in tanto, per mostrarci, con video sottotitolati, i volti degli uomini di potere mentre declamano i loro bei discorsi su progetti, accordi, strategie di costruzione di unità, di giustizia, di pace, di uguaglianza. Questi personaggi saranno impersonati tutti dallo stesso attore, impeccabile nella sua espressività mimetica: Marco Lorenzini, col suo volto istrionico, dall’espressione talora beffarda, talaltra grottesca, che a seconda del discorso e del personaggio incarnato cambierà registro linguistico: da Winston Churchill a Paul-Henri Spaak, da Robert Schuman a Jean-Claude Juncker, dal Primo Ministro lussemburghese a Ursula von der Leyen, per finire con il discorso patetico e a tratti ridicolo di un Presidente del futuro, intento a dimostrare l’efficacia dell’ultimo progetto finanziato sull’estrazione dei metalli nello spazio.

La denuncia politica, sottesa e mai dichiarata, in questa messinscena ha un impatto emotivo che destabilizza il pubblico, il quale è chiamato a rispondere con la propria coscienza dell’indifferenza che inevitabilmente si traduce in complicità diretta su quanto accade intorno a noi e che ricorda troppo da vicino il rimosso di quell’evento drammatico che ha visto milioni di ebrei, rom, omosessuali, sterminati dal nazismo.

La governance europea, infatti, nata dalle macerie della guerra e impostasi come paladina di una pacificazione dei popoli fondata sul rifiuto di ogni discriminazione sociale, politica ed economica, sulla libera circolazione delle genti e sul diritto di asilo per chiunque provenisse da Paesi in guerra o devastati dalla miseria, si è di fatto occupata esclusivamente di finanza, di bilanci degli Stati membri, di privatizzazioni, di tagli della spesa pubblica. Intanto ai suoi confini, tra indifferenza e complicità si prefiguravano conflitti armati sempre più inestricabili; guerre e miserie che sono all’origine di quei flussi che l’Europa respinge e che costituiscono una corsa verso il baratro, che s’intersecano con una crisi ambientale e con una miseria indotta da politiche commerciali predatorie e alle quali si risponde con la creazione dei CPR, veri e propri campi di concentramento, allo scopo di fermare quell’umanità disperata prima che arrivi sul suolo europeo, sottraendola allo sguardo dei cittadini mentre vengono massacrati.

Forse indagare sul concetto di confine, di frontiera, decostruendo gli assiomi che li hanno resi invalicabili, serve a lasciare aperta una possibilità, l’unica allo stato delle cose, per cui si possa considerare un’altra Europa, che è quella tracciata dalla Carta dei diritti dell’Unione.

Spettacoli come questo sono necessari, anche per aprire faglie che spesso si ricompongono in spazi di solidarietà e accoglienza e dove netto è il rifiuto di un modello economico, esportato dall’Occidente, che ha creato miseria anche al suo stesso interno. Necessari perché aiutano a capire le contraddizioni da cui siamo assediati e che non dipendono dai profughi sui quali sempre più spesso si fa ricadere la responsabilità, innescando odi tra i poveri e alimentando una destra nazionalista e xenofoba. La sfida da affrontare è triplice: ambientale, economica e dei profughi; sfide non separabili ma fortemente interconnesse.

Così, i racconti autobiografici dei personaggi di Confini, scelti non a caso con la pelle nera, che ci parlano delle condizioni di sfruttamento degli operai in miniera, delle morti per crolli, come nel caso di Marcinelle, dove rimasero sepolti circa trecento uomini, quasi tutti italiani, degli ammalati di silicosi, dei feriti nella dignità umana, dei discriminati in quanto italiani, ci ricordano troppo da vicino le morti degli operai che lavorano senza sicurezze e il grido dei migranti di oggi, così troppo vicino per non essere udito.

Usciamo dal Bosco di Capodimonte, scelto quest’anno come location per il festival, con la mente stretta in un groviglio d’inquietudine: da una lato la quiete del bosco di sera, superbo e silenzioso, che testimonia la bellezza di una natura piena di dignità, dall’altro l’angoscia di un mondo che va alla deriva, accompagnata per mano dalla nostra indifferenza. Lo scopo del teatro è quello di far riflettere, così nella mente permangono le voci del coro, come un’eco che non smette di amplificare le sue onde sonore.

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Articolo 1: dignità umana. La dignità umana è inviolabile.

Articolo18: diritto di asilo. Il diritto di asilo è garantito dalle norme della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati e a norma del trattato che istituisce la Comunità europea.

Articolo 19: le espulsioni collettive sono vietate, nessuno può essere allontanato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani e degradanti…


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